L'Attaccamento

Quando il bambino piange, perché lo fa? E quando quel bambino, diventato adulto, si ritrova nuovamente in lacrime, chi cercherà? Lo psicologo britannico Bowlby si ritrovò per incarico dell'OMS a condurre delle ricerche su bambini senza famiglia negli anni Cinquanta del Novecento. Ciò che scoprì fu un sistema comportamentale destinato a diventare uno dei pilastri fondamentali della psicologia clinica odierna: l'Attaccamento. 

Attaccamento

L'etologo Lorenz, uno dei padri dell'etologia, scoprì un fenomeno sensazionale: il cucciolo di una specie, in una fase precoce della sua esistenza definita periodo critico, si lega emotivamente con un legame indissolubile alla prima figura che vede in quella finestra temporale e che per lui diventerà il pilastro della sua crescita come individuo. In questa maniera un anatroccolo elesse lo stesso Lorenz a sua mamma adottiva. Questo fenomeno è detto imprinting. Da questi studi, l'etologo austriaco ipotizzò l'esistenza di schemi d'azione fissi, di meccanismi innati, biologicamente programmati in ogni specie a manifestarsi in un certo periodo determinato. Fra questi, il bisogno di riconoscere un genitore, o meglio, un caregiver.  Su questa base si innesta il nostro psicologo britannico. Negli anni Cinquanta, l'OMS gli commissionò degli studi su bambini poi rimasti senza genitori e qui scoprì una cosa sorprendente: l'assenza di un caregiver portava i fanciulli ad acquisire comportamenti spesso disfunzionali, fra i quali il ritiro completo in loro stessi, o scoppi in crisi di pianto inconsolabili. 

Sulla scia di queste osservazioni, Bowlby ipotizzò l'esistenza di un sistema innato, specie-specifico e presente per tutto l'arco dell'esistenza che si attiva nei momenti di bisogno e che porta alla ricerca di una base sicura, di una figura che venga vista in quel momento come supporto. Chiaramente, i primi anni di vita sono quelli in cui l'essere umano ha maggiormente necessità di una persona accanto e pertanto in questa fascia temporale si sviluppano i primi schemi di attaccamento. Tale dato è coerente con le osservazioni di Lorenz circa il periodo critico: è infatti nei primi due anni che l'infante si lega a un individuo precipuo che diviene il caregiver principale e col quale evolve le dinamiche di attaccamento. Sorprendentemente, la scelta del caregiver da parte del bambino non è il frutto di una logica nutritiva ma affettiva: l'infante si lega alla figura che gli dona più affetto e supporto nel momento del pianto, non a quella che gli dona il cibo. In un brillante esperimento, Ainswoth mostrò come un piccolo esemplare di primate passasse la maggior parte del suo tempo attaccato a un pupazzo in pelo più simile a una scimmia che non a un pupazzo in metallo che però gli offriva il latte, rendendo evidente il criterio emotivo e non fisiologico della preferenza. Questo dato è di estrema rilevanza se analizzato: il sistema di attaccamento è talmente potente da imporsi anche su meccanismi che noi riterremmo di insuperabile importanza: è per l'attivazione dell'attaccamento che, in modo del tutto illogico, il micetto, spaventato da una macchina, corre dalla madre sul bordo opposto della strada, mettendo di fatto a repentaglio al sua vita. Non può stupire dunque che i bambini, deprivati della figura che doveva soddisfare un sistema di questa entità, sviluppassero una sofferenza psichica più o meno marcata. Bowlby, in collaborazione con la già citata Ainswoth, identificò tre differenti pattern di attaccamento: uno evolutosi da un'attivazione ottimale e due invece a fronte di un caregiver più o meno indisponibile; infine i due psicologi distinsero un pattern di disorganizzazione completa di questo importante sistema. Andiamo ad analizzarli di seguito.

Sull'infanzia e i bisogni del bambino si sono scritte veramente molte pagine. Partiamo da un dato semplice, comune a molte specie: quando il bambino piange, ha bisogno e quando ha bisogno, cerca il caregiver. Quando la figura di attaccamento risponde al pianto dell'infante confortandolo, questi interiorizza che al suo bisogno troverà sempre un sostegno. L'interiorizzazione di uno schema di interazione viene definito modello operativo interno (MOI), e in questo caso è il migliore possibile: quando ho bisogno, so che troverò qualcuno. E' sulla base di ciò che il bambino può permettersi di esplorare tranquillamente il mondo e di patire il distacco della figura genitoriale, sapendo che essa non sparirà: il bambino ha sviluppato un attaccamento sicuro. Sulla base di ciò, si può facilmente desumere la conseguenza di preconcetti educativi come "bisogna insegnargli a essere indipendente" o "non deve diventare mammone". La natura in questo senso si autoregola: quando l'infante avrà fatta sua la sicurezza della presenza del caregiver, sarà lui stesso ad allontanarsene; un distacco troppo precoce può invece compromettere lo schema di attaccamento, producendo risultati diametralmente opposti a quelli desiderati. Prendiamo ad esempio un genitore che si sottragga al pianto del bambino, che lo lasci piangere ogni volta da solo, con la speranza che prima o poi smetta. In effetti, questa tecnica dopo un po' darà i suoi frutti: il bambino smetterà di piangere poiché avrà appreso che il pianto è inutile, così come è inutile dimostrare di avere bisogno. L'attaccamento fallisce e il MOI conseguente è la certezza che nessuno verrà in soccorso. Nessuna sorpresa se poi ci si troverà davanti a un individuo incapace di esprimere le sue emozioni, le quali verranno eventualmente sminuite, squalificate o persino ignorate o non riconosciute. Siamo dinanzi a un attaccamento evitante. Poniamo un terzo esempio: un genitore che di fronte al pianto è distratto, ma che "recupera" l'assenza con una presenza asfissiante sul bambino quando questo invece cerca di esplorare il mondo; un caso in cui insomma più che vedere un genitore che risponde ai bisogni del figlio assistiamo a un figlio che si fa carico dei bisogni di affetto di un  genitore che è imprevedibile, che può esserci come può sparire per sempre, può essere affettuoso come assente. Chiunque di voi davanti a un quadro simile probabilmente avvertirà una certa ansia: eccoci infatti davanti a un attaccamento ansioso ambivalente. Il bambino potrà presentare crisi di pianto inconsolabili dopo l'assenza anche solo temporanea del caregiver, poiché anche il suo ritorno sulla scena non potrà in alcun modo garantire il permanere della sua figura nel futuro. Lo stesso bambino potremo trovarlo adulto e ansioso, con relazioni caratterizzate dal bisogno del partner e da una profondissima insicurezza. Immaginiamo infine un caso drammatico: la persona da cui il bambino cerca conforto per la paura è la stessa che gli genera l'emozione negativa. Il sistema di attaccamento va in corto circuito, si disorganizza. Il caregiver è lo stesso che lo minaccia, lo picchia o in generale gli provoca quel dolore da cui vorrebbe essere consolato. Non c'è fuga. I bambini in questa condizione si bloccano, come animali in pericolo, mostrano comportamenti stereotipati, sembra quasi che perdano il contatto con la realtà per rintanarsi in una dimensione parallela. Sono gli stessi adulti che in un contesto affettivo non sanno cosa fare, e si trovano incastrati in altalene di rabbia e bisogno senza fine. Il bisogno di affetto non è cancellabile, anzi è più che mai attivo, ma dall'altra parte si sa che la ricerca di quella carezza comporterà un dolore lacerante, sprofondando in una ferita senza uscita.

Lo stile di attaccamento del bambino dei primi anni non è certo inamovibile: può mutare nel tempo, con buone relazioni o con una buona terapia. Uno stile di attaccamento insicuro o disorganizzato non è certo una condanna a vita. E' però certo che questo sistema non smette di attivarsi con l'età. Tutti nella nostra vita abbiamo avuto e avremo bisogno di qualcuno: in quel momento, il nostro attaccamento si farà sentire e con esso i nostri modelli operativi interni, come noi abbiamo imparato a prevedere il mondo, a leggerlo. Se ci dovessimo accorgere che la nostra lettura ha tinte fosche, intrise di rabbia, o al contrario paiono senza alcun colore, ricordiamoci che il mondo è enormemente vasto, e che le regole che abbiamo imparato non sono Il mondo, ma il Nostro mondo. Mondo che può cambiare, che può ricolorarsi. Con nuovi modelli operativi interni, con nuovi attaccamenti.

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A presto!

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