La coscienza: tutti ne parlano, nessuno sa cos'è. Se chiedessi a qualcuno fra voi di dirmi se sa cosa sia la coscienza, tutti penso rispondereste affermativamente, ma se vi chiedessi di definirla, in quanti saprebbero rispondere? Eppure è la base stessa del nostro essere, è la nostra stessa sensazione di esistere. Ebbene, addentrarsi in questo campo è certamente tra le imprese più ardue della filosofia: autori quali Dennet, Farad, Nagel sono in prima linea nel cercare di delinearne la natura, i confini. Ma se la speculazione filosofica cerca di afferrare questo fantasma visibile a tutti ma afferrabile per nessuno, i neuroscienziati tentano l'impossibile: catturare la sua azione in una rete di neuroni, scorgere la sua opera nascosta nella fitta rete di connessioni all'interno del cervello. In questo articolo, andremo ad analizzare le principali teorie neuroscientifiche tratte dalla illuminante review di Seth e Bayne (2022) circa la coscienza e tenteremo insieme di sposare le due sostanze cartesiane in un unico incredibile organo: il cervello.

Definire la coscienza può sembrare quasi banale in prima battuta, ma se ci si focalizza davvero sul tentare di delinearne i confini in un'unica esaustiva definizione, il compito si trasforma in un quesito quasi amletico. Potrebbe definirsi come la capacità di percepire qualcosa, ma risulterebbe tautologico, poiché la percezione è la facoltà che ci consente di essere coscienti di uno stimolo. Si potrebbe ipotizzare allora una definizione più psicologica, come "il senso del Sé", ma non se ne viene a capo in ogni caso, poiché andrebbe definito il Sé. E poi, quale coscienza? La coscienza di uno stimolo, e dunque locale, o il Sé, ciò che siamo, e quindi una coscienza globale? Ma ancor più a monte: esiste davvero una coscienza globale? E dove si trova? Ecco, con un'ottica alquanto riduzionista, che connota un po' questo articolo, possiamo dire di essere abbastanza certi di una cosa: a elettroencefalogramma piatto, il paziente è morto, e dunque incosciente. La stessa cosa avviene con il cuore, certo, ma proprio perché il sangue non giunge più al cervello. Da questo dato, possiamo desumere che la coscienza sia quindi strettamente connessa all'attività cerebrale e a meno che non ipotizziamo che il cervello funzioni in base a direttive di entità o sostanze impalpabili, dovremo ipotizzare che la prima sia il frutto della seconda. Vediamo dunque i principali approcci neuroscientifici alla coscienza
Il primo approccio racchiude tutte le High Order Theories (HOT) e sostanzialmente si basa sul concetto di meta-rappresentazione. Uno stimolo diviene cosciente quando è ri-rappresentato in un'area di secondo ordine. Rendiamolo più chiaro con un esempio. In una bella giornata di sole, vediamo una rondine librarsi nel cielo: ne siamo coscienti, è lì. Cos'è successo? Le Neuroscienze ci descrivono minutamente la via visiva dall'occhio al cervello. Senza addentrarci in questo argomento, che può costituire il tema di un nuovo articolo, passiamone in rassegna gli step. Il segnale luminoso colpisce la nostra retina, e i suoi recettori convertono il segnale luminoso in un segnale elettro-chimico che viene ripartito in due nervi ottici. Questi decussano, ovvero si scambiano, nel chiasma ottico, e giungono prima a un nucleo del talamo detto nucleo genicolato mediale e poi alla corteccia visiva primaria che si colloca nel lobo occipitale, dove c'è la nostra nuca. Qui viene elaborato secondo differenti dimensioni: forma, colore, movimento ecc. Tutto chiarissimo. Ma come queste componenti si riuniscono nell'unica immagine della rondinella? Questo primo problema è definito da Dennet problema dei qualia, che evidenzia la sostanziale differenza tra la descrizione del processo visivo e la percezione che questa comporta. La prima è ampiamente spiegata, la seconda rimane un mistero. Il secondo problema, forse ancor più rilevante è: come ne diveniamo coscienti? Ecco, qui le Hot ci rispondono che l'immagine della rondine deve finire in una sorta di secondo magazzino o circuito, che ha il compito di rappresentare non solo l'immagine, ma il fatto stesso che questa sia stata rappresentata. Questa prospettiva dà il nome all'approccio, che appunto concepisce la coscienza come il frutto di un processo rappresentativo di ordine più alto. I teorici che supportano questa teoria, ipotizzano che la meta-rappresentazione abbia luogo nella corteccia prefrontale, ovvero quella parte di cervello appena dietro la nostra fronte. Il problema parrebbe risolto dunque, ma alcune cose ci sfuggono. Come fa un'unica area a differenziare l'immane mole di stimoli che generano le nostre percezioni? In che modo lo fa? E ancora, come da queste singole percezioni si genera il nostro senso del Sé? Domande senza risposta.
Il secondo approccio racchiude le Global Workspace Theories (GWT). Immaginiamo il nostro cervello come una tavola, in cui ogni istante entrano decine e decine di processi contemporaneamente; pensiamo a questi input come delle carte. Fra queste, alcune si ripeteranno. Quelle che si ripetono maggiormente, o che in qualche modo sono richiamate da altre carte, hanno più probabilità di accedere alla coscienza tramite un fenomeno detto ignizione. Di nuovo, la responsabile del processo di "coscientificazione" sarebbe proprio la nostra Corteccia Prefrontale. Ma anche in questo caso, alcune domande rimangono senza risposta. Secondo quale criterio il cervello decide quale informazione vada ignita? Come fa a deciderlo? E ancora, questo modello non ci fornisce alcuna informazione né sul senso di Sé né tantomeno sulle qualità fenomenologiche della nostra percezione.
in risposta al problema della globalità della coscienza si propongono le teorie raggruppate sotto il nome di Integrated Information Theories (IIT). Questo modello è forse tra i più complessi, poiché strettamente intrecciato con un fitto e specifico linguaggio matematico. Proviamo a renderlo un po' più chiaro. Secondo gli autori che sposano questa prospettiva, un sistema produce coscienza quando è in grado di dar luogo a informazioni che siano il frutto dell'attività dell'intero sistema e non delle sue singole parti. L'informazione di sistema, non ulteriormente riducibile in aspetti elaborati o elaborabili singolarmente, influenzano a loro volta il sistema stesso, producendo un rapporto causale intrinseco. Facciamo un esempio pratico. Immaginiamo di paragonare un alveare al cervello e le singole api alle singole aree che lo compongono. Quando un'ape comunica all'alveare dove si trovi un florido campo di fiori sta di fatto portando al sistema-alveare un'informazione specifica riconducibile all'attività della singola ape: è dunque riducibile a lei sola. L'insieme delle comunicazioni intervenenti all'interno dell'alveare però non sono riducibili all'ape singola, bensì proprio all'attività del sistema-alveare stesso: in questo caso, siamo dinanzi a un'informazione frutto del sistema stesso, non riducibile all'attività di una singola ape. Questo pacchetto di informazioni inoltre influenzerà l'attività futura dell'intero alveare, creando di fatto un sistema con una causalità intrinseca. Così, un conto nel cervello sarà l'attività della singola area, un conto l'attività dell'intero cervello che produrrà un'informazione globale e autocausante, che in questo modello è appunto una sorta di quanto di coscienza che si formerebbe nella zona più posteriore. I lettori più attenti fra voi avranno notato che secondo queste regole non è necessario che sia per forza un essere vivente a produrre coscienza, ma quest'ultima potrebbe essere una proprietà di qualsiasi sistema sufficientemente complesso. Prospettiva incredibilmente affascinante e quantomai attuale se si considera il periodo di incredibile innovazione tecnologica sul fronte della robotica. Ad ogni modo, questo modello risponderebbe finalmente al quesito di una coscienza globale, ma si presenta di estrema difficoltà applicativa per l'immane mole di informazioni elaborate dal nostro cervello ogni mezzo secondo.
L'ultima famiglia di modelli che gli autori propongono è quella dei sistema predittivi a feedback, la più in voga delle quali attualmente si può affermare sia la Predictive Coding Account. Sostanzialmente si teorizza che la coscienza sia il frutto di inferenze che il cervello compie sui dati sensoriali, che vengono interpretati sulla base dell'esperienza tramite un approccio euristico, probabilistico. Le informazioni sensoriali (bottom up) verrebbero dunque non solo elaborate, ma interpretate da processi che le analizzano in base all'esperienza (top down) facendole emergere alla coscienza. Prendiamo l'esempio della rondinella di prima. La corteccia visiva ha appena elaborato una forma a V nel cielo di colore nero (processo bottom up) e spedisce l'informazione alle cortecce più frontali che hanno il compito di interpretarla. Qui il cervello opererebbe una sorta di analisi probabilistica: se siamo in inverno in Alaska, si tratterà di un aereo, se invece siamo in Italia in primavera sarà una rondine. Invia dunque il risultato di questa interpretazione nuovamente alle cortecce sensoriali (feedback top down) dando origine alla nostra percezione cosciente. Molto elegante da un punto di vista teorico e facilmente lavorabile in un'ottica sperimentale, questa teoria non spiega però la complessità dei fenomeni di coscienza.
In questo articolo ho cercato di farvi tuffare con me nell'affascinante e stimolante mondo delle ricerche sulla coscienza. Questo tema e quello del libero arbitrio costituiscono forse un po' il sacro Graal delle neuroscienze. Comprendere cosa siano queste due cose, imbrigliarle nel nostro cervello, è il sogno di qualsiasi neuroscienziato, perché forse avremmo un po' l'illusione di conoscere le chiavi di cosa ci renda in fondo profondamente ciò che siamo. Forse, è il tenativo della scienza di rispondere a uno dei grandi dilemmi esistenziali che ci accompagnano dalla notte dei tempi: Chi siamo?
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A presto!
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